Pur di notevole pregio tecnico, lontano dalla rappresentazione oggettiva, i dipinti di Emanuela Dal Pozzo non hanno alcuna velleità estetizzante. Il pennello si impone abilmente anche nelle sovrapposizioni, dove l’olio rende particolarmente efficaci le trasparenze e i viraggi tonali si prolungano: “si perde l’armonia dei toni della natura con una imitazione penosamente esatta, questa la si mantiene ricreando una gamma cromatica parallela, che può non essere quella del modello” (Van Gogh lettere a Theo). I quadri di Dal Pozzo non vogliono portare l’attenzione dell’osservatore a sentimentalismi bucolici, ma piuttosto hanno la pretesa spregiudicata di parlare di totalmente altro e contraddire un pensiero antico, ricorrente nella tradizione asiatica, che parla dell’indifferenza della terra: “Il cielo e la terra sono inumani, trattano i diecimila esseri come cani di paglia” (Lao-tse ). Oggi, purtroppo, sappiamo che tale pensiero è spesso e tragicamente capovolto. Nel paesaggio viene a compiersi, quasi a titolo risarcitorio, una armonizzazione che appare essere come una ri-creazione. In questo superamento della separazione originaria la natura è rappresentata con benevolenza ed è permeata di intensa umanità. Eppure, quando la presenza umana è accennata (es. sono raffigurate delle case), queste, anche se poste in modo ordinato, risultano essere una parte non integrata e problematica (sono sempre senza porte e finestre). È la casa dell’uomo nel suo esilio, è l’abitare la terra come corpo estraneo ad essa. Un luogo dove le domande si fanno incalzanti e le tensioni si placano in risposte significative; non perché risposte teologiche o scientifiche, ma perché risposte che raccontano e la quiete della narrazione consola. In queste case “dimora e alberga un’anima straniera” (Hegel) e stranieri si è anche tra gli uomini. Ogni casa è caos, è torre di Babele. L’artista tratta con efficacia la problematica della conflittualità e della violenza tra gli umani, utilizzando i “pennelli” ed i “colori” della scrittura di gialli storici, testi teatrali e saggi (sua arte di elezione spesso anche premiata). Nella pittura, invece, sospende la descrizione esplicita di tale problematica. Si lascia trans-portare in modo anche istintivo nel racconto enigmatico, ma sereno, con accenni surreali di paesaggi, in cui la forza del colore si riallaccia al sentire dell’impressionismo, a volte con impeto fauvista. In questa riconnessione Dal Pozzo sembra alludere a quella “terra senza il Male” che anche gli indios Guaranì, nel loro vagare senza meta nella foresta Paraguayana del 1500, cercavano. Non riferendosi a una terra dell’ al di là, ma a una terra vera, geografica, luogo di pace e di un nuovo linguaggio che, nel fraintendimento avido dei conquistadores, dette vita al mito dell’Eldorado. Dei cambiamenti epocali in atto, di cui il nostro tempo è gravido, con realismo concettuale e prudente ottimismo, in questi dipinti se ne trovano tracce importanti. Ed è in questo racconto, dove la domanda si estingue e l’esilio diventa patria, il luogo in cui si dipana il raggio verde: orizzonte di senso aurorale di Dal Pozzo, dove a parlare è il suo discorso poetico, che è poi trasferito al “limite del discorso”. Ed è questo limite che intendiamo percorrere nella visione di questi dipinti.
Roberto Lucchese